Nelle motivazioni del Tribunale della Libertà emerge un dato: non è consentito un automatismo probatorio nel “giudizio di qualificata probabilità di colpevolezza del singolo indagato” in riferimento al rapporto con il padre, ritenuto a capo di una organizzazione. Tradotto: essere figli di un presunto boss non significa essere mafiosi. Per sostenerlo, ci vuole un impianto di prove consolidato.

A metà febbraio la Corte di Cassazione lo aveva stabilito con estrema chiarezza: “Nuovo esame al Tribunale di Catanzaro per rivedere le esigenze cautelari e la gravità indiziaria di Vito Chiefari“. E così è stato: accogliendo il ricorso degli avvocati Vincenzo Cicino e Giovanni Russomanno, il Tdl del capoluogo ha annullato la misura cautelare e rimesso in libertà Vito Chiefari (figlio del presunto boss Antonio Chiefari), coinvolto, insieme ad altri 16 persone, nell’operazione anti ‘Ndrangheta “Orthrus”, che a ottobre scorso ha colpito la presunta cosca Chiefari-Iozzo di Chiaravalle Centrale e Torre Ruggiero.

Secondo quanto stabilito dai giudici catanzaresi, appare non più sostenibile l’affermazione della partecipazione  di Chiefari al sodalizio mafioso “Iozzo-Chiefari”: la svalutazione o comunque riduzione del carico indiziario degli elementi posti a sostegno della misura cautelare tenderebbero a sminuire le accuse riferibili a Chiefari in relazione alla partecipazione associativa.

Una valutazione del Tdl che parte dall’ordinanza annullata dalla Cassazione. I magistrati del capoluogo infatti sostengono che già da allora “non erano ravvisabili come fatti valutabili come sintomatici di condotte intimidatorie verso società o imprese concorrenti con le società di famiglia”.

Anzi, sostiene il Tdl: è il contrario, come per l’incendio subito di un escavatore ad ottobre del 2018, denunciato alla forze dell’ordine. Durante una conversazione registrata, infatti, Chiefari lamenta al suo interlocutore il disappunto per non aver potuto lavorare in alcun modo nell’appalto della strada delle Serre tra Chiaravalle Nord e Cardinale/Torre Ruggero. Il problema sarebbero state delle “carte” non “a posto”, le interdittiva antimafia.

Conclusioni: vengono esclusi i gravi indizi di colpevolezza sulla partecipazione di Vito Chiefari all’organizzazione mafiosa. Risultato: annullamento della custodia cautelare che costringeva l’indagato a stare nel carcere di Vicenza.

di EDOARDO CORASANITI

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